Non dico addio, un romanzo contro l’oblio e la rimozione del dolore

gennaio 6, 2025

Gli incubi peggiori sono quelli ricorrenti, tornano ogni volta che si cede al sonno. E restano increspati dentro agli occhi, come un velo nero, anche quando si è svegli. Non basta riporre, come da superstizione coreana, un oggetto metallico, una sega, sotto il futon. Tornano. L’unico modo per provare a farci i conti è attraversare il trauma che li ha generati, scendere fino in fondo alle acque più torbide, esporsi al rischio di non potersi più restituire alla condizione precedente, perché intanto i ponti saranno saltati. Ma non c’è altra via.

Non dico addio è una discesa agli inferi senza sconti e senza ammantamenti. I massacri, anche i massacri, sono descritti nella loro verità, non risparmiano nessuno, neanche i bambini; i carnefici hanno metodi studiati, efficaci, possono trucidare a un passo dal mare così che i cadaveri siano poi inghiottiti dalle onde. E chi potrà più avere il coraggio di pescare, di cibarsi dei pesci nutriti dal sangue dei propri familiari? A chi sopravvive alle torture non basterà una pietra riscaldata con amore e avvolta in un panno da tenere vicino al cuore a far passare il tremore che imperversa nelle mani da quei giorni. Chi resta sconterà per la vita quel dolore lacerante e quel senso di silenzio e di buio che invade i giorni e non lascia scampo, rischia di prendersi tutto, anche l’orizzonte.

La rimozione del dolore e della morte, così trendy, almeno a queste latitudini, va smascherata nella sua illusoria funzione consolatoria. È un bluff. Tanto più al cospetto di un massacro feroce, come quello perpetrato in Corea, a Jeju, che resta una ferita aperta e ancora sanguinante, una frattura mai completamente sanata, nonostante risalga al 1948-1949, nonostante le scuse ufficiali del 2006.

Han Kang ripercorre, come già in altre opere precedenti, vicende dolorose di un intero Paese, in maniera documentata, testimoniale e contemporaneamente lirica, perché non dimenticare è la premessa per costruire e rafforzare una identità comune.

Non dico addio è, pertanto, un libro contro l’oblio, perché se si dimentica tutto o si finge di dimenticare tutto non si è più nulla. Colpevolmente. Non come accade talvolta agli anziani che con gli anni perdono la memoria, incespicano e poi restituiscono parole e frasi come isole sparse, ma mantengono l’amore di fondo di una madre seppure vecchia che, se ora ha bisogno che sia la figlia a sbucciarle il mandarino, lo dividerà comunque in due e offrirà a lei, alla figlia, la porzione più grande, comunque.

Han Kang ha un dizionario preciso, inesorabile, la narrazione procede per frasi spesso brevi, ficcanti. Non c’è nessuna forma di autocompiacimento narrativo, né la ricerca della bellezza meramente estetica, parole e fatti procedono assieme e ognuno trae forza dall’altro. La potenza evocativa è frutto di uno stile intimo, che tiene dentro elementi ascrivibili a un diario, a una testimonianza, a una indagine giornalistica, a un flusso emotivo; tiene dentro tutto questo, combinato come in un complesso e bilanciato piatto agrodolce, come si preparavano in casa una volta. È un romanzo che combina, combina fatti privati e collettivi, lirismo e durezza, accadimenti e visioni, etereità e corpo.

E se pare che gli eschimesi abbiano cinquanta o più modi per definirla, qui la neve è il manto bianco che accompagna e impregna le emozioni e può avere mille sfumature che vanno dal fiabesco al glaciale, come pure lo spirito umano.

La forza espressiva è tanto più viscerale perché Han Kang conduce per mano il lettore in un percorso sfrondato da qualsiasi elemento di modernità, di contemporaneità, in un sentire ancestrale, che restituisce un senso più profondo di verità alle cose, alle emozioni, alle relazioni.

Nelle pagine emerge dal fondo un sentimento tra gli altri che accompagna la protagonista, ovvero questa aspirazione a tentare sempre un raccordo con tutte le espressioni del mondo, dall’amica, allo scendere cadenzato della neve, fino a una vecchina sconosciuta incrociata per strada. È una linea sottile quella che traccia questo sentire, questo desiderio di raccordo, e che implica un modo di stare al mondo che è quello di partecipazione nel senso più pregnante del termine.

Alla fine, quello che ne viene è un percorso doloroso, lacerante, necessario, nel buio, al freddo glaciale di una tempesta di neve, con gli occhi però rivolti verso l’orizzonte a cercare una luce, una seppure flebile luce, come è quella di una candela, quale speranza rinnovata da condividere per guardare al futuro con rinnovata speranza, assieme.

Non dico addio è un romanzo contro l’oblio, contro la rimozione del dolore e della morte, contro la superficialità e la compulsività di chi si limita a scrollare la cronaca e dimentica la propria storia, personale e collettiva; è un invito all’attraversamento del buio con i piedi ben piantati per terra, consapevoli della forza delle proprie radici e delle relazioni vere. L’unico modo per scacciare gli incubi, anche quelli a occhi aperti.

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