Piccola serenata lusitana agosto 29, 2018 Sono stato sul territorio lusitano quattordici giorni di agosto, ma ho iniziato a partire una settimana prima e non sono ancora completamente ritornato. Mi continuo a chiedere come sia stato possibile non esserci andato prima, anni e anni prima, e fatico a perdonarmi per questo incontro così tardivo, per fortuna favorito da chi amava già quel lato del mondo e ci ha presentati. Terra benedetta dalla luce, il Paese di Pessoa e Saramago é intimamente votato alla poesia e alla bellezza, spesso morbida, sempre accogliente. Per strada i mobiletti grigi dei quadri elettrici si fanno tele per colorati affreschi contemporanei, spezzoni di frasi, aforismi improvvisati, poesie a casaccio. I muri stonacati ospitano versi più lunghi, intere canzoni, sequenze di scene come quelle raffigurate sui cartelloni di certi cantastorie siciliani. Decorazioni pennellate in blu cobalto su mattonelle piccole e quadrate ingentiliscono case, strade, chiese, il loro fondo bianco illumina pavimenti, ornamenti, pareti e soffitti. Più in alto, sopra i tetti delle chiese, le torri, gli anfratti delle case, stanno ramoscelli arruffati a tondo, sono i nidi delle cicogne. Se ne ritrovano pure percorrendo le strade che salgono dall’Algarve all’Alentejo, diritte, costeggiate da alberi di sughero coi tronchi decorticati, rossi come la terra. Stanno lì i nidi, abbarbicati alla sommità dei pali che conducono la luce elettrica, attraverso distese senza case. Chilometri di terre abitate solo da curiosi scheletri metallici filiformi che si allungano per dieci metri nei campi; ricordano mantidi religiose o certi sogni di Dalì, tra persistenza della memoria e orologi molli. Servono a irrigare. I cieli allargano gli occhi ovunque, l’aria dei costoni sull’oceano i polmoni. Per le strade abitate, invece, acciottolate in geometrie armoniose, l’aria riporta di frequente un piacevole odore di sardine che qualcuno sta facendo rosolare. Capita dalla mattina fino a notte fonda, quando dagli ultimi locali arriva la malinconia di un fado lisboeta, come un contrappunto ad una istintiva predisposizione al buon umore che aleggia diffusamente in tutto il Paese. Si accompagna a una forma di cortesia elegante, che sa di antico e che altrove é ahimè perduta. É quella che rende lieve l’attesa di tempi talvolta irrimediabilmente lenti. Loro ne hanno consapevolezza, probabilmente, dato che, ad esempio, per consuetudine portano a tavola pane con formaggio o burro salato, talvolta salumi, appena ci si siede, prima ancora di ordinare. Sembrano vivere rilassati sì, ma pronti sempre a puntare i piedi, a prender questione tutte le volte che serve o che vi é occasione. Appassionati, inquieti, litigano anche i vecchi per una partita a carte tra tavolini portati apposta all’ombra degli alberi nei parchi pubblici. Litigano animosamente ma tutto si ferma se c’è da dare una informazione a chi si trova a passare. L’accoglienza qui conserva qualcosa di sacrale. Tanto che non guarda con sufficienza neanche il giovane a cui chiedi una camera, un quarto, in un luogo di oceano e festival musicale, in pieno agosto e senza aver prenotato. Al contrario: nel dire che non ha posto usa un tono di dispiacere, come fosse colpa sua, un lamentio di scuse lunghe e ripetute, che viene voglia di confortarlo, di dirgli non fa nulla, non ti preoccupare. Fa di più una signora che fitta stanze e si incrocia sull’uscio a innaffiare con dedizione di lungo corso un vaso di garofani rossi. Se ha tutto pieno tornerà in casa a prendere il telefono e comincerà a chiamare per cercare una soluzione. Continuerà a farlo fino a che una sistemazione non si trova. Nulla di strano, se non fosse che qui é così ovunque. É naturale. E seduce. Complice la lingua che suona malinconica e musicale nei toni sempre bassi, pure nelle parole delle donne, finanche nelle voci adolescenti. E propone tra le altre una espressione che altrove é assente, intraducibile. Fazer horas, fare le ore, senza impegno e senza un programma preciso. Gustare il tempo. Un segno incontestabile di elevata civiltà. Di più: un patrimonio immateriale per l’umanità. Da coltivare ovunque e da riassaporare là. Até giá, Portugal. Lascia un commento Annulla risposta Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *Commento Nome * Email * Sito web Navigazione articoli La fabbrica delle donne: storia di un paese immaginario (neanche tanto)Il verso delle berte e francuccio a Ventotene