SriLanka Into Napoli. Memo tra cibo, oleografie e integrazioni dicembre 26, 2018 Primi anni del Duemila. Dando le spalle alla facciata maestosa della sede centrale di quello che fu il glorioso Banco di Napoli si può salire dentro una delle aree più vivaci della città. Qui, lungo una di quelle parallele di via Toledo che fendono i Quartieri Spagnoli da parte a parte, appare presto una inconfondibile insegna a bandiera di una pescheria, non illuminata ma ben visibile anche se è sera. A fianco a quella, la porta di un palazzo malconcio e un citofono che reca tra le possibili opzioni “Sri lanka”. Pigiando, risponderà una voce straniera un po’ allarmata nel chiedere chi é. Appena scoprirà che si tratta di persone lì per cenare quella voce si rassicurerà e chiederà quanti siete con assoluta noncuranza della risposta, facendo seguire una rapida e conclusiva indicazione: terzo piano. Dalla scala stretta del palazzo si accede a questa casa, con una stanza adattata a ristorante. Tutto è molto spartano, ma non manca il televisore gigante sulla parete principale che propone trasmissioni e film bollywoodiani (sia pace tra i popoli nei secoli). Può capitare di cenare, unici avventori, mentre a fianco, nella stessa stanza c’è un signore anziano, anche lui srilankese, reso autorevole da un panciotto rosso di raso. Un giovane lo aiuterà a sistemare delle carte e a seguire arriveranno altri loro connazionali a disporsi in fila, ordinati, allegri e silenziosi. Portano i risparmi, banconote sistemate per taglio in piccoli blocchetti. Le affidano al signore col panciotto rosso di raso probabilmente affinché le faccia arrivare alle famiglie in patria. Quello le conta lentamente, alza la testa a chiedere conferma della cifra, poi compila un modulo, lo timbra e lo lascia come ricevuta. Tutto questo potrebbe recare imbarazzo stando lì seduti a cenare se non fosse per una cortesia non ordinaria, quella gentilezza che mette buon agio, sia del proprietario che ha risposto al citofono e cura tutti i servizi per la cena, sia delle persone lì, in fila nella stanza. Ordinare é semplice, basta rispondere a un quesito di fondo: con carne o senza. Rispondendo senza, tempo pochi minuti e cominceranno a giungere due piatti con frittelle, polpette e un’insalata con spezie spesso non riconoscibili all’impronta. Né sarà molto di aiuto chi porta al tavolo le pietanze. Che si chieda di cosa é fatto uno dei pani tipici, la paratha, o quei triangoli ripieni di verdure, oppure quelle che si scopriranno essere le gustose ulundhu vadai, la risposta disarmante in un italiano ancora incerto sarà sempre la stessa: “come una specie di patata”, detto con una gentilezza che non permette repliche. Che non si tratti sempre dello stesso ingrediente é più che un dubbio, ma tant’è. Si cena piacevolmente, si paga poco e si respira un che di esotico. Può capitare però che tornandoci in quegli anni, nel salire le scale del palazzo, dalla porta già aperta si avverta arrivare l’inconfondibile sound di una canzone neomelodica. Approssimandosi all’ingresso poi qualcosa cambia: niente più musica strappalacrime napoletana ma il suono e il video di una canzone srilankese. Qualcuno ha rapidamente cambiato canale tv, prima che entrassero gli ospiti per la cena. É evidentemente un gesto di cortesia, di accoglienza. Un modo per creare di più un certo ambiente, fare atmosfera. E però arriva come una stonatura, come se quel che sembrava naturale prima ora apparisse un poco costruito all’occorrenza. Come se riguardasse la genuinità dell’esperienza. L’unico modo di uscirne é chiedere se cortesemente si può rimettere sul canale di prima, per finire di ascoltare quella canzone neomelodica e chiedere al padrone di casa che cucina e serve ai tavoli, se la conosce, la capisce, gli piace. Naturalmente accontenterà gli ospiti nella richiesta. E poi risponderà che no, non la conosce, la capisce poco, ma usa i canali tv locali per imparare più velocemente il napoletano e un poco l’italiano. Poi aggiunge divertito che così potrà dire meglio anche cosa c’è nei piatti. Che – allarga gli occhi – non tutti sono fatti con una specie di patata! E mentre lo dice gli scappa una incontenibile risata contagiosa, come di chi ha confessato un piccolo peccato. C’è una genuinità pretesa, oleografica e poi c’è quella vera, che può passare anche per una canzone neomelodica in un ristorante srilankese a Napoli. E fa differenza. P.S. Il ristorante é in Vico Lungo Gelso, a distanza di quasi venti anni pare – dicono – che sia ben più strutturato, offra un menu molto più ricco e abbia una clientela ben più numerosa. La gentilezza é quella di sempre e così anche i prezzi. Ora però é possibile chiedere di ingredienti, spezie e pietanze e avere risposte più articolate ed esaustive dal proprietario di casa che risponde volentieri e sorridendo. Quando ha poco tempo, tuttavia, se la cava ripetendo ancora per qualsiasi piatto “come una specie di patata”. Insomma, si è integrato. Lascia un commento Annulla risposta Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *Commento Nome * Email * Sito web Navigazione articoli Il vizio della speranza. Affresco natalizio degli ultimiSe solo ad Aquilonia, in Irpinia, in un anno si gioca un milione di euro alle slot