Ritratto di famiglia con tempesta. Bello, quasi occidentale, per nulla hollywoodiano.

ottobre 20, 2019

I film nipponici, é noto, richiedono pazienza, mente sgombra e attenzione. Così é anche per ritratto di famiglia con tempesta, bella pellicola “scritta, corretta e diretta” dal maestro KoreEda Hirokazu, come recitano i titoli di testa. E questa ironia resta poi sottesa per tutto il film, con aneddoti e piccoli accadimenti di vita quotidiana che risultano universali, vissuti ad ogni longitudine, riconoscibili come propri anche in Occidente. Tanto che a momenti viene il sospetto, poi per lo più  fugato, che il regista strizzi un po’ l’occhio a un pubblico sempre attento alla filmografia giapponese, come é quello del Vecchio Continente. 

Le ambientazioni sono casalinghe, le scene all’aperto sono rare e nessuna riguarda la Tokyo affollata e trendy; l’intimità delle scene beneficia anche di un contesto quasi scevro di comparse. 

In questo ritratto di famiglia ogni componente si rivela coerente e fermo sostanzialmente nel proprio modo di intendere e di vivere dall’origine alla fine, proprio come in un ritratto. Compresa l’anziana madre del protagonista, Yoshiko, interpretata da una straordinaria Kiki Kilin.

Certo la tempesta, metafora senza didascalie di un momento clou che riguarda i personaggi del film e le loro relazioni, muta il clima complessivo della storia e delle storie. E tuttavia l’unico che sul finale risulta veramente cambiato é il protagonista principale Ryota, interpretato da Abe Hiroshi.

Profilo tipico del perdente con tratti da eterno PeterPan, un romanzo alle spalle che gli valse anche un premio molti anni addietro, una vita di espedienti da impiegato di una società investigativa, una esistenza segnata dalla dedizione al gioco d’azzardo che gli è costata anche il divorzio e con esso l’allontanamento dal figlio.

Tutto questo qui è cucinato senza le salse dal sapore forte o dal retrogusto compassionevole in cui spesso affogano le pellicole statunitensi; prevale un tono agrodolce ma spesso lieve, finanche ironico, soprattutto non banale. Tanto che si perdona qualche cedimento alla retorica che qua e lá affiora. E il finale non è quello scontato di tanta filmografia hollywoodiana, tra riscatto sociale, redenzione cristiana o happy end da favola di Natale. Passa, invece, nelle strettoie del verosimile quotidiano, ma attraverso un mutamento profondo che riguarda il rapporto del protagonista con se stesso e con il padre defunto. E una liberazione collegata a una consapevolezza nuova, anche o forse soprattutto per un riconoscimento fino ad allora ignorato.

I dialoghi hanno la cura di chi prima del cinema aspirava a fare lo scrittore, le musiche sono poche ma molto in armonia con le immagini morbide e il montaggio a tratti poetico.

Il finale resta aperto, fedele agli albori da documentarista del regista che racconta di aver imparato allora una questione fondamentale: le persone e le loro vite ci sono prima di registrare e proseguono dopo che la camera si sarà spenta. Sembra banale, ma basta dare un occhio alle trame epiche dei film al cinema, anche ora, per verificare che in fondo non lo è poi tanto.

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