Balcanic Sound

agosto 29, 2016

Bs 1 – Spalato

Spalato sta per ginestra spinosa e lo vedi non solo nelle inflorescenze dei dirupi urbani e dei declivi rocciosi che volgono a mare; é qualità che affiora anche tra le rughe e i tratti somatici gentili e pungenti assieme di chi qui ci vive, di quelli che distingui facilmente dalla bolgia di noi avventori estivi.

In città, prima di andare dentro le mura del luccicante Palazzo di Diocleziano, tradizione vuole che si tocchi l’alluce del piede sinistro alla statua di Gregorio Di Nona. Porta fortuna. Porta fortuna toccare l’alluce alla statua di un vescovo. Non è mica come strofinare il corno, quella è scaramanzia, é peccato; l’alluce di Gregorio Di Nona é invece benedetto. Amen.

Dentro le mura é tutto un dedalo di viuzze e di costruzioni in pietra lucida, tutte pulite e lisce come certe bomboniere. Si intuiscono tanti stili architettonici differenti sapientemente combinati per una bellezza linda e non banale.

Appena fuori il Palazzo c’è il mercato Pazar, dove servono cibo di strada da molto prima che lo street food diventasse, anch’esso, territorio di conquista del Global Trendy. Ci trovi borek con una pasta sfoglia morbida e sottile, raznici ben cotti, civapi di manzo non troppo speziati. Viene facile pensare che gli stessi piatti, pure con specificità locali, alla fine si possono gustare da Trieste fino ad Istanbul e oltre. Assaggiarli é un atto politico a cui non si può rinunciare.

Bella scusa.

Dobar tek, dovidenja

 

BS 2- Kravice

Salendo in Bosnia Herzegovina a una quarantina di chilometri da Mostar la migliore sosta é offerta dalle cascate di Krevice.

All’ingresso un cartello in molte lingue recita “divieto di svolgere riti religiosi“, poco più avanti conventicole di donne musulmane chiuse dentro burqa integrali seguono uomini barbuti lungo il percorso verso le aree di ristoro, poi scompaiono dietro qualche angolo riposto, al riparo dai nostri occhi. Tra loro anche una figura molto esile, non avrà più di sedici anni, ma è difficile dirlo solo dagli occhi.

Una donna slovena in canottiera risponde che non sa bene le ragioni del divieto all’ingresso, ma prova a spiegare e mentre pronuncia la parola “religione” abbassa la voce e si guarda intorno con circospezione.

In fondo é stato solo poco più di venti anni fa.

Dalla conca di pareti in tufo alte più di dieci metri, intanto, il Trebizat, fiume volubile che cambia nove volte nome lungo il suo corso, conduce giù copiose le sue acque, ne fa cascate placide e riconcilianti. La donna slovena le guarda, sorride e tace.

Ad ogni male ci sono due rimedi: il tempo e il silenzio, diceva Dumas.

Talvolta il suono delle cascate é anche meglio del silenzio.

 

 

 

 

 

BS 3 – Mostar

A Mostar é il ponte vecchio, lo Stari Most, a dare nome alla città. Distrutto nel 1994 e ricostruito fino al 2004 ha una forte carica anche simbolica.

Fa arco sopra alle acque verdi del fiume Neretva.

Da un lato lascia il campo a tre minareti puntati verso il cielo in uno spazio così stretto che sta in una foto.

Di fronte, a case in pietra ben conservate e tanti cantieri edili, attivi pure a ferragosto.

Nel mezzo tre ragazzi in costume da bagno passano tra i turisti e salgono sopra al muretto che costeggia il ponte. Fanno cappello. Poi, raccolti un po’ di marchi, uno di loro fa un tuffo coreografico a favore di foto.

Ovunque sbucano negozi, ristoranti, locali, per lo più con identiche mercanzie dozzinali, cineserie da nonluogo e foto promozionali tutte uguali per le pietanze da propinare.

I civapi comunque sono buoni anche qui, almeno quelli che servono da Tima&Irma.

Irma ha quarant anni, due figli e un ristorante a due passi dal ponte. Dice che esiste una Irma di prima e una di ora. Non aggiunge altro.

Dicono per lei i segni degli spari che trapuntano i muri di palazzi non ancora ristrutturati. E un murales: un grosso fiore rosso con a fianco un monito “war is not over”.

Nonostante la libera circolazione in città sia stata ripristinata sin dal 1996. Nonostante il ponte sia ora patrimonio dell’Unesco. Nonostante Medugorje disti meno di trenta chilometri. (Che poi fu da lì, alla fine, che partì la pulizia etnica croata. E fu il luogo delle apparizioni, Podbrdo, a essere utilizzato come area per testare il lancio delle granate).

Nonostante venti e più anni. La guerra qui non si è fatta ancora storia, é calce fresca, cronaca recente. E la pietra che pavimenta il ponte é scivolosa, bisogna procedere adagio, prestare attenzione.

E trovare forme nuove di riconciliazione. A Mostar ne han trovato anche una particolarmente singolare. I giovani, bosniacchi, serbi e croati, han pensato assieme a quale potesse essere un simbolo nuovo che li accomunasse tutti. Ci hanno riflettuto un poco.

E poi alla fine lo hanno trovato: Bruce Lee. É lui il simbolo della lotta contro il male e contro tutte le ingiustizie. Nella zona bene, lungo il boulevard, dal 2005 c’è una statua dorata che riproduce il campione di arti marziali.

In passato non sono mancati atti vandalici, ora la statua di Bruce Lee sta lì e apre a speranze per un percorso non ancora completamente compiuto. Dalla Cina, con stupore.

 

 

 

BS 4.1 – Sarajevo mon amour

A osservarla dalla fortezza gialla, oltre il cimitero musulmano dove é seppellito Alija Izetbegovic, appare intrigante, distesa ai piedi del monte Igman che la cinge quasi a proteggerla.

Ma non si avverte ancora chiara l’essenza. Bisogna scendere a Bascarsija, la città vecchia, il quartiere turco, per entrare dentro la sua atmosfera. Si passa il Ponte Latino dove il giovane Gavrilo Princip sparò e uccise Francesco Ferdinando, erede al trono dell’impero austro-ungarico, scatenando, dicono, la prima guerra mondiale.

La piazza dei piccioni con al centro la fontana Sebilj vagamente ottomana e intorno piccole botteghe a vender macinini in rame per il pepe, pentolini e tazze per il caffè turco, tutto inciso a mano, qui, sul posto.

La Biblioteca Nazionale distrutta dalle cupe vampe, come avrebbero cantato i Csi, poco più di venti anni fa, ora da qualche tempo é recuperata, seppur privata per sempre di un pezzo della nostra storia e di centinaia di migliaia di testi.

Più in là c’è Piazza Izebegovic, con la scacchiera gigante disegnata a terra e uomini che muovono alfieri alti fino alle ginocchia, tanto di giorno quanto di notte. Finanche quando il Generale Inverno marcia fino a qui.

Per arrivarci si attraversa una strada fortemente simbolica che nel suo lungo tratto dritto inizia con la Saraci antica e turca e poi prosegue come Ferhadija, costruita nel periodo asburgico.

Basterebbe questo per le facili suggestioni che accompagnano la città: Gerusalemme d’Occidente, punto d’incontro tra due mondi, avamposto musulmano in Europa.

Oltre la fontana semplice a due cannelle, alla quale tradizione vuole si porti la guancia a bere come buon augurio per tornare, si possono incrociare alcune delle cosiddette “rose di Sarajevo“. Resina rossa a maculare fazzoletti di strada. Ricordano chi qui ci è caduto, da qualunque parte della barricata si trovasse.

Alcune rose pavimentano un tratto a ridosso della Cattedrale del Cuore di Cristo. Altre si rinvengono nei percorsi brevi verso altri edifici di culto. Chiese cattoliche e ortodosse, sinagoghe, moschee. Quattro differenti religioni tutte fortemente presenti in un centro storico raccolto a ridosso del fiume Miljacka. Ci sono altre città così in Europa?

Poco oltre c’è il fuoco eterno, che brucia in questa base circolare e simboleggia la pace, come fiamma da tenere accesa perennemente.

La fiamma che si svolge dal braciere torna buona per fare le foto per la pace nel mondo. C’è un po’ di fila ma si può aspettare.

Guai, nel frattempo, a pensare che nel 1992 la stessa fiamma la spensero a colpi di cannone.

Gli scatti potrebbero venire mossi. Fermi così, click.

 

 

BS 4.2 – Sarajevo mon amour

Al Metropolis servono uno dei migliori caffè, i burek più buoni qui sono da Mrkva e da Zeljo. Val la pena cenare da Dveri (Prote bacovica, 12) e attardarsi a fumare narghilè nei locali a ridosso.

Fumano tutti e tutti si intrattengono a bere caffè, di sera come di giorno, raccolti in due o tre fuori un negozio di souvenir, un “rent a car”, un centro informazioni.

Seduti alla meglio su sgabelli improvvisati, tazzina in mano e guantiera in rame poggiata sul davanzale del locale. Anche per ore.

Non c’è frenesia nell’aria a Sarajevo, tutto scorre, si sta dentro una energia buona e nessun senso di conflittualità. Velo integrale e gonne corte si camminano a fianco.

Resta invero un che di irrisolto. Le nonne invitano i nipoti a farsela solo con chi ha la stessa fede, che non si può mai sapere. Storcono il naso se sanno di frequentazioni con chi ha un nome chiaramente espressione di altro culto. Hanno lasciato il centro, la città, il Paese, durante l’assedio e spesso non sono mai più tornate. I padri parlano poco e mal volentieri della guerra. Conservano ferite e rancori, ma tacciono su quanto accaduto per tenere i figli al riparo da quella spezzatura toccata loro in sorte e che ha diviso irrimediabilmente colleghi, vicini di casa, famiglie, amici di una vita.

C’è poi tutta una economia post bellica. Tour sui luoghi del conflitto, fin dentro un tratto del famoso tunnel che salvò la vita a migliaia di persone. Cartoline e magneti a riprodurre le campagne contro la guerra, sarcastiche e incisive, che partirono allora. Libri e raccolte di cartoline. Una ragazza che ne vende risponde mal volentieri a domande sulla guerra nonostante sia giovane, la sua espressione dura sembra dire che chi acquista é benvenuto, ma la guerra è una cosa seria, non è il caso di parlarne come se discettassimo dell’ultimo film di Kusturica o del cocktail lanciato questa estate.

La sera per le strade scende una atmosfera intima, con una luce come da abat jour. Si possono immaginare i poeti come Izet Sarajlic, amico fraterno di Alfonso Gatto, che durante la guerra tiene accesa la speranza e il senso di umanità declamando poesie in strada, o il violoncellista Vedran Smailović mentre nel 1992 suona un adagio per 22 giorni, uno per ognuno dei 22 civili uccisi mentre sono in fila per il pane.

Sarajevo é ancora in transizione ma oggi il futuro é per fortuna nei ventenni e negli occhi di Sara e Sejla, una ortodossa, l’altra musulmana, amiche per la pelle e impegnate concretamente nel far fare alla storia l’altro mezzo giro verso una stagione nuova. Studiano italiano, si divertono assieme e organizzano incontri tra giovani di ogni provenienza, bosniacchi, serbi, croati. Ciascuno porta i propri libri, le foto, i filmati, il proprio pezzo di verità. I testi a scuola, in particolare, si somigliano tutti, salvo attribuire le responsabilità della guerra gli uni agli altri. Sveglie, preparate e con una certa dose di disincanto. Se qualcuno fa “tre” con una mano, usando il pollice, l’indice e il medio invitano a fare attenzione. É espressione della trinità e chiaro messaggio religioso. Sejla, come tutti i musulmani qui, di solito per il tre utilizza indice medio e anulare. Occorre stare attenti, ammoniscono. Poi scoppiano a ridere, come chi considera certe distinzioni solo sciocchezze da raccontare ai turisti. Vecchi arnesi del passato. Così pensano anche della Sevdah, un tipo di canto tradizionale bosniaco. Sevdah significa bile nera in turco. In greco invece bile nera pare si dica melan kholé. Malinconia.

Zgobom, Sarajevo

 

BS 5 – Dubrovnik

Da sopra, dando le spalle al monte senza vocali Srd, prima del mare appaiono i tetti rossi, vecchi e un poco lisi, di pioggia e di vento, e scuri di fuliggine. Alcune case, invece, hanno per copertura tegole di un rosso giovane, che ricorda ancora quello di fornace. Sono queste macchie chiare di alcuni tra i tetti a rivelare e a ricordare che nel 1991 i bombardamenti giunsero fino a qui. Per fortuna non appaiono altre tracce di guerre recenti. Per i conflitti più antichi basterebbe l’imponenza militare dei bastioni che circondano la città medievale, con mura possenti e nei secoli rinforzate, che han contribuito a tenerla indipendente e al riparo fino a un paio di secoli fa. Che qui la storia ci sia passata e abbia mescolato da sempre le carte comunque lo racconta già il nome, doppio: Ragusa, terra della rupe, prima e oltre che Dubrovnick, foresta delle querce. E tanti riferimenti sulla cartina che evocano altre culture, a cominciare da quella italiana. Piazza Bona, per esempio, un tempo detta piazza della Puglia, a indicare i venditori che venivano dall’altra costa dell’Adriatico.
Una lenza di mare un tempo divideva in due parti la città. Fu riempita di terra per coltivarla e oggi é la strada principale di Dubrovnik. Stradun, di chiaro accento veneziano.
Di giorno Stradun é piena di turismo da crociera, con guide che conducono alla cattedrale barocca dedicata all’Assunzione, al cospetto dell’enorme palazzo dei Rettori, a piazza della Loggia, per spiegare tutte le costruzioni che vi si affacciano.
Qualcuna tra le guide rivolta ai propri turisti sostiene che a Dubrovnik tutto sia caro ovunque, tranne nel negozio di souvenir dove stanno per recarsi.
É proprio a due passi dalla grande fontana di Onofrio, di matrice rinascimentale, a ridosso della quale vi é una palina come un leggio. Avvicinandosi si scopre che la palina non riporta informazioni sulla fontana, ma il menù di un ristorante lì vicino. Lo stesso accade altrove e ancora. Solo menù, nessuna informazione storica o architettonica. E per entrare nei singoli edifici antichi ci vuole un biglietto all’ingresso. Tutto si paga. E tutto è caro, confermato.
Lo si nota, in verità, già prima di arrivare nell’area pedonale, per via di un costo orario per parcheggiare l’auto che non sfigura nel confronto con le zone più centrali di Roma o di Milano.
Deve essere la versione contemporanea dell’antico spirito mercantile della città.
Unito alla folla vociante che ha percorso fisso e tempi stretti non rende grazia alla bellezza monumentale della sola Torre dell’Orologio.

La notte Dubrovnik ha un’altra faccia. Si fa intima, un’aria di antico trova spazio per le piazze e porta i passi sulle scale strette, tra i vicoli, verso portoni robusti, eleganti finestre bifore, ricercati portali, chiese. Come quella di San Nicola, il santo della dote che qui come a Bari salvò la dignità di tre fanciulle da maritare. Prima di ispirare il mito di Babbo Natale. Ma il patrono a cui assai sono affezionati qui é un altro: San Biagio. Si festeggia il 3 febbraio, i riti cominciano il 2, giorno della Candelora. Che nel Sud Italia implica il passaggio dall’inverno alla primavera, viene buono per far presagi sul clima e sulla prossima vendemmia, é giorno ideale per togliere il malocchio e per altri rituali. Qualcosa di simile accade pare anche qui, con i sacerdoti che benedicono i fedeli imponendo due candele incrociate intorno al collo. Come buon augurio contro il mal di gola e ogni altro evento nefasto. Quando alcuni secoli fa un fortissimo terremoto scosse la città, però, non ci fu rituale che riuscisse a tenerla salva. Per tre quarti ne uscì rasa al suolo. Era il 1667. In quell’anno Milton dava alle stampe “Il paradiso perduto“, che a citarlo dà sempre un tono anche se non si è mai letto per intero. E che sulla cacciata dal Paradiso di Adamo ed Eva recita infine così: “A sè dianzi avean tutta la terra, ove un soggiorno scegliersi di riposo, e per scorta la Provvidenza. A incerti e lenti passi dell’Eden pei solinghi campi, tenendosi per man, preser la via”. Andare via da un paradiso é spesso la scelta migliore. Se fatta senza attardarsi meglio ancora. Specie se il grattino é già scaduto da un’ora.

 

BS 6 – Montenegro 

L’amaro. Gira una storia quasi leggendaria, tutta italiana, che narra di tale Stanislao che per sfuggire alla carriera ecclesiale cui era destinato cominciò a viaggiare. Tornato in patria provò a riprodurre un liquore che aveva assaggiato dall’altra parte dell’Adriatico, il karik. Dopo vari tentativi venne bene e gli diede per nome Montenegro, come il luogo che glielo aveva ispirato. Doveva essere magnifica quella terra allora. E per molti versi lo rimane, nessuno sa dire per quanto tempo ancora. Kotor, oltre alle insenature artificiali che si pretendono simili ai fiordi scandinavi, ha un tessuto urbano fascinoso, con pietra d’Adria ovunque lucida e lisciata per i chilometri macinati dalle suole di generazioni di marinai.
Ci sono gatti ovunque per le strade. Qui hanno un pelo morbido e un tratto austero, quasi nobile. Non come quelli nelle campagne a ridosso di Mostar, che erano spelacchiati, rachitichi, malaticci. A Kotor no, sono lindi e aggraziati, come tutto il borgo, e hanno pure un museo dedicato, per via di una ricca gattara che fece un lascito cospicuo anni fa.
Chi ha tempo si allunghi a Perast, centro piccolo molto bello lì nei pressi.
A mezz’ora di auto più a Sud, a Budva, invece, può capitare di incrociare il peggio. Discoteche che resistono fuori tempo, come vecchie pittate che non si rassegnano al calendario, locali con foto recenti già sbiadite, ritrovi che si chiamano San Trope’, così, scritto proprio così, con neon scadenti che fanno una luce triste e intermittente. Sta tutto su quella che chiamano la Riviera. In mezzo ci passeggiano ragazze abbigliatissime, come di ritorno da un matrimonio di un’invidiata cugina. C’è una folla che non si passa e che invita a fuggire. Eppure qui vengono anche dall’entroterra, finanche da Sarajevo, per ballare al Paris o al Trocadero una musica dance arrangiata ieri con un sound che sembra dei peggiori anni Ottanta. Fuggire. La tentazione è fortissima e alla fine non si doma.
Per fortuna la mattina dopo, con l’alba che sale sul vetro dell’auto c’è modo di visitare anche la Budva più antica, quella medievale. Sta più a valle, ha mura fino a dentro il mare e dopo una passeggiata al centro storico si possono fare due passi contati e trovarsi in spiaggia.
Con pochi euro si fa un giro in barca tra pareti rocciose che restano visibili anche dentro acque trasparenti e cangianti, grotte naturali che ricordano quelle più rinomate in Italia, calette isolate dove però la sera la corrente sale.
Può capitare che ad accompagnare nel giro ci sia un montenegrino di origini serbe che ancora maledice il referendum del 2006 e la vittoria sul filo (qualcuno sostiene pilotata) di chi ha voluto l’indipendenza del Montenegro. Siamo tutti più divisi, più poveri e con meno futuro, dice. E rimpiange Tito, come quasi tutti quelli con cui capita di chiacchierare nei Balcani. Si stava meglio allora, c’era meno differenza tra le classi sociali, c’era meno ma c’era per tutti, ripetono. Se chiedi se qualcuno potesse allora parlare male di Tito, criticarlo, inarcano le sopracciglia e scuotono la testa. Certo che no. Ma a che prezzo si può ora criticare Milo? Milo sta per Milo Ducanovic che comanda in Montenegro da prima della guerra, quando era giovanissimo. Non piace a nessuno e tutti lo considerano un malfattore. Accusato anche dalla Procura Napoli, nonostante numerose e circostanziate accuse, soprattutto per contrabbando internazionale per miliardi di euro, si é sempre tenuto salvo, forte dell’immunità garantita dallo status di Primo Ministro.
Un fatto é certo: negli anni della guerra il Montenegro era una sorta di ventre molle da cui passava e dove si spacciava di tutto. Tutti erano dediti al contrabbando, non solo di sigarette. Ovunque erano bambini per strada con le taniche a vendere benzina, ricorda un ragazzo appena fuori da una agenzia di escursioni. Parla sette lingue, tutte imparate da autodidatta, ha studiato la storia recente ed é informato anche di quanto accade politicamente in Italia. Ma non è la norma. Nella casa di Angie, una signora ottantenne con una scorza dura e sopracciglia marcate, nessuno parla altro che la lingua nazionale. Come in Italia, d’altronde. Solo un figlio parla un poco italiano, dice che ha quarantatré anni, ma sembrano molti di più. Forse la guerra invecchia, chissà.
Se si chiede di preparare qualcosa di casalingo per cena Angie ne è felice e la sera la tavola é imbandita non sulla veranda, ma dentro casa, dove di solito vive lei, visitata da figli e dai nipoti. Certo può imbarazzare un po’ stare a cena e avere seduta intorno, oltre la tavola, tra sedie e divano, tutta la famiglia che chiede se è tutto buono. Senza che si siedano a tavola anche loro.
Ma i civapi di Angie sono buoni e ancora di più il vino che é fatto in casa, nelle terre intorno, per cui anche le avances matrimoniali, con serie intenzioni, del figlio a una straniera appena incrociata sono benvenute e aprono sorrisi.
Non provoca lo stesso effetto uno sguardo alla collina di fronte. Tante scatole cementate tutte uguali che la sera si illuminano e fanno un effetto da cella frigorifero sopra il mare. Il Montenegro lo stanno svendendo ai magnati russi, raffinatezza ed estetica non brillano tra le qualità dei nuovi ricchi putiniani. In Montenegro occorre andare (o tornare) presto, prima che anche i dodici chilometri di spiaggia di Ulcinj siano incassati dentro villette a schiera per vacanze tutto incluso, anche il cemento fino al mare.
Le navi approdano e ripartono da Bar, un centro antichissimo che in italiano diventa Antibari, a rimarcare che sta di fronte al capoluogo pugliese.
Se ritardano l’imbarco per l’Italia c’è una spiaggia a due passi per un tramonto tutto natura da fotografare e il wifi gratuito per spedire gli scatti dall’altra parte del mare.
Almeno, ad agosto del 2016, si poteva ancora fare.

 

 

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