Chiaroscuri e doppialettura, tra la compagnia di Ianniello e Hanno tutti ragione

maggio 8, 2020

Di nomi

Se per un romanzo, un racconto, un post, c’è da scegliere un nome di donna bella in modo inusuale, da innamorarsi più che da fiaccare i fianchi, c’è una scelta azzeccata e ricorrente. Quasi naturale. Sarà per il suono della parola, per la radice che richiama una condizione di benessere, sarà perché al sommo poeta e al canto per la sua amata non si sfugge o per una combinazione di queste e altre cose ma non c’è storia, su tutte vince un nome solo: Beatrice. Beatrice. E non sfuggono alla regola né Enrico Ianniello e il suo sorprendente “La compagnia delle Illusioni”, né il liberatorio “Hanno tutti ragione” di Paolo Sorrentino.

Per il resto non ci sono altri punti di incontro tra i due romanzi, a parte Napoli o forse più precisamente certe espressioni di napoletanità.

 

La Compagnia delle illusioni e il valore salvifico della sprezzatura.

La Compagnia delle Illusioni é un romanzo agile e godibile che ruota intorno a una bella intuizione, calata perfettamente nel contesto Partenopeo. Seppure in sparuti punti appare un po’ prevedibile o altrimenti forzato, l’ossatura complessivamente tiene e propone una storia che ha elementi di bellezza da favola mischiati al difficile percorso di elaborazione di un lutto che ferma tutto in una bolla. Riporta anche al desiderio di un percorso immersivo dentro Napoli, specie per chi può riconoscere quella musica di fondo, è ad uso vivere tra il Cavone, il bar Mexico, il Calascione, peraltro caro a Renato Caccioppoli, e da lì guardare il mare.

Nei dialoghi sostenuti, in mezzo all’ironia brillante, tra le maglie della sprezzatura del protagonista é facile scorgere qualcosa di familiare, un certo modo di porsi al mondo così naturalmente sperimentabile nella quotidianità partenopea.

Traspare – anche nelle scene più scure – una venatura lieve e salvifica che corre dietro al susseguirsi degli eventi narrati, come a rassicurare, a dare conforto sempre.

Viene voglia – se ce ne fosse bisogno – di scendere in strada nel Centro Storico di Napoli come un flaneur. Riconcilia, con leggerezza.

 

“Hanno tutti ragione” e il gusto per le sfumature e i perdenti di Paolo Sorrentino 

C’è sempre da diffidare dai registi che si propongono come scrittori, ma Sorrentino ha dalla sua che é prima di tutto uno sceneggiatore. Seppure in qualche modo pigro, a modo suo. Lo evidenzia la scrittura dei suoi film, con la funzione della trama evaporata progressivamente, chiamata a puntellare giusto in scene topiche un racconto che é tutte centrato su personaggi, dialoghi, sguardo introspettivo e sulla società. Così è anche nel primo romanzo di Sorrentino. E che lo stile risulti sullo scaffale riconoscibile così come al cinema non è scontato ed é per certo una buona sorpresa.

Aiuta, in questo, che il personaggio di “Hanno tutti ragione”, è lo stesso “archetipo” di quello nell’Uomo in più, in una delle sue possibili vite. Tony, Pisapia al cinema, Pagoda nel romanzo, cantante melodico che si gioca la vita, se la reinventa pure, tra un tiro di cocaina e l’altro, tra l’Italia e il Sud America.

Ne deriva una esperienza inconsueta di lettura, con una personificazione del protagonista, che rimanda irrimediabilmente a Tony, Servillo.(Perché invece Alberto Ratto in Brasile possa apparire alla mente di chi legge con le fattezze di Danny De Vito non è dato saperlo).

L’incipit rimane memorabile, la scrittura rifugge qualsiasi rischio di scontatezza, le figure, quella del protagonista in particolare, prendono forma e sembrano raccontare con la loro voce gli accadimenti.

C’è una colonna sonora inconsueta, un omaggio ai testi della canzone italiana che non è mai stata solo cuore e amore, neanche negli anni della spensieratezza per il boom economico.

“Ci é” un bel ritmo, vezzi di scrittura piacevoli, aggettivi azzeccati e inusuali, metafore divertenti, mescolamenti di tragedia e commedia in percorsi che aprono a parentesi lunghissime e godibili. Come quando cercando qualcosa sul web appare una parola curiosa e da lì parte un cliccare e approfondire fino al rischio di scordare la ricerca originaria.

Si potrebbe dire che dopo l’inizio sostenuto, tuttavia, c’è un poco un calo di intensità e qualcuno potrebbe dubitare che sia sempre Tony Pagoda a narrare quando, scavallata la metà del romanzo, sembra quasi squarciarsi  il velo e da linguaggio e bagaglio appare più Sorrentino che il protagonista del romanzo.

Si conferma più in generale quella curiosità comprensiva ma senza misericordia dell’autore per i perdenti. Da tempo immemore sono loro che hanno storie più interessanti da raccontare, certo, resta che Sorrentino sembra non immaginare mai non una salvezza, per carità, ma qualcosa che appaia come una “pena minore”, uno sconto. No, qui come in tutti i suoi film, i perdenti sono trattati con grande immedesimazione o almeno con uno sguardo molto comprensivo, ma poi pagano caro, pagano tutto. Quasi attraverso un meccanismo fisso, senza scampo. Non vi è mai la tentazione di rassicurare, al contrario.

Sopra a tutto emerge che Sorrentino scrivendo si é liberato non solo dai vincoli (budget, tempo di durata) del cinema ma anche dal desiderio di proferire alcune sentenze sue per bocca del protagonista, dal “complesso dei bassi” alla perseveranza nel litigio della donna moderna.

A scrivere si è con tutta evidenza divertito, basta vedere che nomi affibbia ai personaggi, di facile suggestione in alcuni casi (Beatrice, per esempio), significanti sempre, come da antica e nobile tradizione, fino al cazzeggio con Tony Paziente.

Ne deriva una storia che è una storia di questo tempo (anche con rimandi di facile lettura verso situazioni e personaggi reali) rivelata oltre la patina del consueto; connotata  da una lucidità del pensiero elevata, che per il protagonista Tony Pagoda può ascriversi all’uso smodato di cocaina, per lo scrittore Sorrentino alla particolare cifra artistica già emersa dietro la macchina da presa.

Tony Pagoda, insomma, verrebbe bene più che come protagonista di un nuovo film, proprio di una serie, ma Sorrentino ora sta su altri lidi, poi chissà.***

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